Rivoluzione oggi (o anche no?)

Chi ha avuto la pazienza di seguirmi nell’excursus tracciato in questo blog sul pensiero e la pratica anarchiche, avrà familiarizzato con alcuni dei principi guida dell’anarchismo storico e dei suoi sviluppi contemporanei. Al fine di contribuire al dibattito che si è sviluppato di recente nel movimento sul ruolo da assegnare alla rivoluzione per chi si professa anarchico, vorrei sviluppare questo tema partendo dal passato per arrivare ai giorni nostri. Partirei dal concetto storico di rivoluzione per noi anarchici che, è bene ricordarlo, siamo nati come movimento organizzato intorno alla metà dell’800, in corrispondenza della nascita il 28 settembre 1864 a Londra dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori (AIL), meglio nota come (Prima) Internazionale Socialista, la quale creò i presupposti per i successivi fermenti rivoluzionari quali l’esperienza della Comune di Parigi (1871).

Bakunin

All’interno della Prima Internazionale, si realizzò la politica egemonica sul movimento socialista propugnata da Karl Marx e dai suoi seguaci (chiamati dagli anarchici “socialisti autoritari”) che culminò con l’espulsione dei libertari seguaci di Pierre-Joseph Proudhon e di Michail Aleksandrovič Bakunin dall’organizzazione nel 1872. I socialisti di matrice marxista erano minoranza all’epoca in quasi tutti i paesi: Francia (dove era maggioritaria la componente proudoniana), Spagna (dove gli anarchici dominavano grazie alla propaganda bakuniniana di Giuseppe Fanelli), Italia (in cui prevalevano tendenze mazziniane e anarchiche) e Russia. Nel Regno Unito la maggioranza apparteneva al movimento delle Trade Unions (sindacati) mentre in Svizzera e in Belgio erano rappresentate tutte le tendenze. Nonostante i marxisti fossero in posizione di maggioranza soltanto in Germania, Marx con abili mosse riuscì fin dal principio ad influire pesantemente sugli statuti dell’AIL e a controllarne il Consiglio Generale, liquidando poi in sequenza tutti i suoi oppositori, dai mazziniani ai mutualisti, fino ai collettivisti e agli anarchici[1]. In ogni caso, le lotte intestine tra i lavoratori di diverse tendenze finirono con l’assorbire le migliori energie dei socialisti in quegli anni, mentre la tendenza marxista riuscì a guadagnare visibilità e posizioni che utilizzò alla bisogna per esercitare la propria egemonia sul movimento operaio.

Questa premessa ci consente di analizzare la differenze fra marxisti e anarchici sul concetto di rivoluzione e sulle strategie rivoluzionarie, nate all’interno della Prima Internazionale e poi consolidatesi successivamente. Innanzitutto, per i marxisti la rivoluzione si identifica con il processo di abbattimento del regime borghese e con l’instaurazione della dittatura del proletariato. La rivoluzione viene considerata come una necessità storica, prodotta dalla crescente proletarizzazione dei lavoratori e deve essere guidata da un’avanguardia (identificabile con il partito comunista di stampo marxista) che muove le masse popolari attraverso il cammino rivoluzionario. Marx vedeva nel proletariato industriale la spina dorsale della rivoluzione, in opposizione con una classe di lavoratori politicamente sottosviluppati (principalmente impiegati nell’agricoltura) che venivano considerati come ceti irrimediabilmente reazionari.

Gli anarchici, invece, sottolineano la differenza fra rivoluzione politica (ovvero il cambio di un regime con un altro) e la cosiddetta rivoluzione sociale ovvero il drastico cambiamento delle strutture sociali di una società ottenuta attraverso un movimento di massa. Alexander Berkman chiarisce che la rivoluzione sociale non è soltanto un cambiamento politico: significa la riorganizzazione complessiva della vita economica, etica e culturale[2]. Scopo della rivoluzione sociale anarchica è l’abbattimento di ogni potere e di ogni forma di dominio e la costruzione di una società senza classi al fine di consentire lo sviluppo di forme di autogoverno popolare che potranno emergere nel nuovo contesto liberato. Il ruolo attivo dei rivoluzionari in un contesto anarchico è fondamentale, visto che la rivoluzione non viene data per scontata come avviene per i marxisti ma, piuttosto, come diceva Errico Malatesta, uno degli anarchici più attivi e internazionalmente reputati negli anni tra la Prima Internazionale e la sua morte avvenuta nel 1932, “la rivoluzione non è un fatto economico e sociale, ma un atto di volontà”. Altra differenza con il marxismo è l’identificazione del soggetto rivoluzionario: Bakunin credeva che l’unione tra il ceto contadino e il proletariato fosse l’unica possibilità rivoluzionaria[3].

Malatesta

Per analizzare l’atteggiamento anarchico nei confronti della rivoluzione, è fondamentale contestualizzare la questione. Infatti, gli ultimi decenni del XIX secolo e i primi del XX secolo, che possono essere considerati l’età dell’oro del movimento anarchico, furono densi di conflitto sociale anche cruento e gli avvenimenti rivoluzionari si susseguirono anche con successi clamorosi in molti paesi. In quegli anni, il proletariato urbano e contadino assumeva spesso un carattere spontaneamente rivoluzionario e, conseguentemente, la rivoluzione costituiva uno sbocco effettivamente possibile (e in alcuni casi probabile) del conflitto sociale. Errico Malatesta si rese ben conto che l’insurrezione rivoluzionaria era possibile (e auspicabile) in quel contesto storico ma al tempo stesso era consapevole che “l’anarchia non è cosa che si possa fare per forza, per imposizione violenta di alcuni: è chiaro che le rivoluzioni passate e quelle prossime future non sono state e non potranno essere rivoluzioni anarchiche”[4].

Il realismo di Malatesta su questo tema è illuminante, perché chiarisce che in un contesto potenzialmente insurrezionale gli anarchici debbono assumere un ruolo attivo per assicurarsi di “abbattere il potere politico, qualunque esso sia, con tutta la sequela di forze repressive che lo sostengono; impedire, o cercare d’impedire che si costituiscano nuovi governi e nuove forze repressive, e in tutti i casi non riconoscere mai alcun governo e restare sempre in lotta contro di esso e reclamare, e pretendere potendo anche colla forza, il diritto di organizzarci e vivere come ci pare ed esperimentare le forme sociali che ci sembrano migliori, sempre, s’intende, che non ledano l’eguale libertà degli altri” [5]. In questa interpretazione, l’insurrezione si distingue chiaramente rispetto alla rivoluzione sociale di stampo anarchico, giacché quest’ultima si può sviluppare soltanto in maniera graduale: “la costituzione di una società di liberi, ed il suo progressivo miglioramento non può essere che il risultato della libera evoluzione; ed il nostro compito di anarchici è appunto quello di difendere, di assicurare la libertà dell’evoluzione” [6].

Si arriva quindi al cuore del gradualismo rivoluzionario anarchico, ben sintetizzato da Andrea Crociani nel suo libro su Malatesta: “La rivoluzione non è, in ogni caso, imporre la propria volontà sulla grande massa della popolazione? […] L’anarchia non si fa per forza, ma per forza si creano le basi per una possibile comprensione e una possibile successiva realizzazione dell’anarchia. In altri termini non si vuole imporre l’anarchia, ma la rivoluzione. Ma la rivoluzione, considerata come parte necessaria del processo anarchico, rimane pur sempre un atto di imposizione. La contraddizione rimane dunque, e profonda. L’unico modo per risolvere il problema è, secondo Malatesta, riuscire a diffondere le idee di libertà, uguaglianza e solidarietà come senso comune tramite un processo graduale e, inevitabilmente, lento. La rivoluzione sarà coerentemente anarchica solo quando voluta dalla grande maggioranza della popolazione, solo quando il suo ideale principale di libertà sarà largamente condiviso. Ecco che il momento della rivoluzione, seppur fondamentale, in realtà diviene poca cosa rispetto al lungo processo graduale del prima e del dopo. Con le parole di Malatesta: Tutto nella natura e nella vita procede a gradi, l’anarchia non può venire che poco a poco, per cui l’anarchismo deve essere necessariamente gradualista. Nella vita e nella storia tutto in fondo è questione di gradi e di modi […] L’umanità cammina gradualmente, per via evolutiva, anche quando è commossa dalle più intense tempeste rivoluzionarie”[7].

Sulla base del ragionamento sviluppato sinora, mi sembra che si possa affermare che in un’epoca in cui l’insurrezione popolare era (o almeno sembrava) imminente, l’anarchismo si sia adattato alla situazione, incorporando la possibilità rivoluzionaria come pre-condizione capace di favorire (ma anche no) il processo di sviluppo autogestionario anarchico, per sua natura necessariamente graduale. Di conseguenza, gli anarchici, che all’epoca costituivano una forza autenticamente popolare, furono fra i più convinti fautori dell’insurrezionalismo, pur consapevoli dei pericoli insiti in un processo che poteva portare all’instaurazione di un regime autoritario. In effetti, quasi tutte le rivoluzioni degli ultimi due secoli sono state caratterizzate dalla comparsa di governi autoritari e da feroci repressioni degli oppositori politici compresi gli anarchici. Esempi classici del ‘900 sono i governi instauratisi in seguito alla Rivoluzione Russa del 1917 e alla Rivoluzione Spagnola del 1936, che hanno contribuito a spazzare via il forte movimento anarchico di quei paesi.

Il corollario a questo ragionamento ci riporta finalmente all’attualità: al mutare delle precondizioni oggettive della società contemporanea dei paesi occidentali e al venir meno del fermento rivoluzionario delle masse, gli anarchici dovrebbero ritornare al Malatesta citato precedentemente e, quindi, alla strategia del gradualismo anarchico. Questo non significa che gli anarchici debbano rinunciare alla rivolta individuale o collettiva come strumento per combattere l’ingiustizia e avvicinarsi all’anarchia. Al contrario, ritengo che la rivolta costituisca una delle armi più efficaci nella lotta umana per conquistare la libertà e che sia perfettamente in linea con la visione anarchica non soltanto malatestiana. Sono i pruriti insurrezionali o rivoluzionari che invece appaiono oggi fuori fuoco rispetto alla realtà che ci circonda e, di conseguenza, gli anarchici pragmatici dovrebbero prenderne atto e concentrarsi su attività in grado di dare un contributo anche minimo al progresso della società verso una sempre maggiore libertà. “L’anarchia diventa un pensiero in costante evoluzione, un processo continuo di miglioramento, di continua precisazione del proprio ruolo e delle proprie relazioni all’interno della società, nel tentativo di meglio adattarsi alle esigenze contingenti e di meglio servire le necessità dell’uomo: “Non si tratta di fare l’anarchia oggi o domani o fra dieci secoli, ma di avanzare verso l’anarchia oggi, domani e sempre”. Tale fase non può mai dirsi arrivata, né arrivare; con una immagine usata dallo stesso Malatesta, è lo sforzo di raggiungere l’orizzonte, quando si sa bene che l’orizzonte è irraggiungibile”[8].

Per le ragioni che ho tentato di spiegare, penso che il movimento anarchico sia (e debba essere per non perdere il suo carattere) rivoluzionario negli obiettivi e, quando le condizioni sono favorevoli, anche nei mezzi, giacché i governi (politici ed economici) non accetterebbero di perdere le proprie prerogative, se non di fronte ad un atteggiamento rivoluzionario di massa. Quando le condizioni sociali non sono favorevoli, come nel momento attuale, ritengo che il movimento anarchico debba concentrarsi sul diffondere idee e pratiche di libertà nella nostra società, associandosi con chiunque condivida obiettivi e metodi libertari[9]. In questo modo, forse in futuro le condizioni sociali saranno più favorevoli ad un generale rivolgimento sociale e la nostra azione di oggi avrà avuto un effetto pratico e positivo. Citando l’anarchico recentemente scomparso Colin Ward concluderei: “Sono convinto che il modo più efficace di fare propaganda anarchica […] sia prendere in esame l’intera gamma di problemi, parziali, frammentari eppure impellenti, con i quali le persone devono effettivamente misurarsi, e cercare soluzioni anarchiche a essi invece che indulgere a una vuota retorica sulla rivoluzione”[10].

Colin Ward


[1] Per una breve storia della Prima Internazionale vedi: http://www.fdca.it/storico/AIL/index.htm

[2] “The social revolution, it must never be forgotten, is not to alter one form of subjection for another, but is to do away with everything that can enslave and oppress you. A political revolution may be carried to a successful issue by a conspirative minority, putting one ruling faction in place of another. But the social revolution is not a mere political change: it is a fundamental economic, ethical, and cultural transformation. A conspirative minority or political party undertaking such a work must meet with the active and passive opposition of the great majority and therefore degenerate into a system of dictatorship and terror.[…] The social revolution means much more than the reorganization of conditions only: it means the establishment of new human values and social relationships, a changed attitude of man to man, as of one free and independent to his equal; it means a different spirit in individual and collective life, and that spirit cannot be born overnight. It is a spirit to be cultivated, to be nurtured and reared, as the most delicate flower it is, for indeed it is the flower of a new and beautiful existence” Alexander Berkman, “What Is Anarchism?” (1929)

[3] http://it.wikipedia.org/wiki/Michail_Aleksandrovi%C4%8D_Bakunin

[4] Errico Malatesta “La rivoluzione in pratica” in “Umanità Nova”, 7 ottobre 1922

[5] Errico Malatesta “La rivoluzione in pratica” in “Umanità Nova”, 7 ottobre 1922

[6] Errico Malatesta “La rivoluzione in pratica” in “Umanità Nova”, 7 ottobre 1922

[7] Andrea Crociani,”Quello che so su Malatesta”, 2004, Edizioni La Baronata, Lugano disponibile gratuitamente online http://www.anarca-bolo.ch/baronata/libri/malatesta-it.html

[8] Andrea Crociani, ibidem

[9] Per una più ampia trattazione del tema si veda l’articolo: http://anarchico.noblogs.org/post/2010/10/20/strategia-libertaria/

[10] Citato in n.30 Bollettino Centro Studi Libertari/Archivio G.Pinelli; in origine in C. Ward, A Hundred Issues of Anarchy, «Freedom», 30 (20), 14 giugno 1969, p. 3. L’interessantissimo bollettino dedicato a Colin Ward si può scaricare gratuitamente qui: http://www.centrostudilibertari.it/index.php/component/docman/doc_download/31-bollettino-30-supplemento.html?ItemId=59

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4 risposte a Rivoluzione oggi (o anche no?)

  1. Max scrive:

    Grazie Anarchico per la risposta ed il commento, breve ed esaustivo. Chiaramente confidavo che la pensassi così e desideravo aggiungere la mia richiesta di chiarimenti ed un commento perché, devo dire, alcune parti dell’articolo mi avevano lasciato dei dubbi.
    Per esempio la sentenza del fu Colin Ward che riporto: “Sono convinto che il modo più efficace di fare PROPAGANDA anarchica sia prendere in esame l’intera gamma di problemi, parziali, frammentari eppure impellenti, con i quali le persone devono effettivamente misurarsi, e cercare soluzioni anarchiche a essi invece che indulgere a una vuota RETORICA sulla rivoluzione”.
    Anche se chiaramente il pensiero di Ward è molto (!) più articolato ed interessante di questa sua affermazione precedente, io non credo che siamo costretti a scegliere tra intelligente “propaganda” e vuota “retorica” ma sono più del parere che basti cercare di essere noi stessi facendo quello che, da anarchici, ci sentiamo di fare nella contingenza “individuale” non in quella sociale, tantomeno ‘storica’.
    Da questo “desiderio di libertà” accompagnato magari dal semplice ragionamento e da una veloce infarinatura storica, per me si genera già molto, se non tutto: ribellismo, rivoluzione, retorica (se vista criticamente), lotta in ogni campo della società e anche un certo grado di propaganda anche solo, in molti casi, per mezzo dell’esempio personale.
    Riguarda i termini “libertario” e “anarchico” anche qui hai probabilmente ragione ad inserire delle distinzioni. E’ che, personalmente, ho e davo per scontata un’idea abbastanza chiara, direi quindi francamente anarchica, dell’essere libertari. Capisco che non per tutti valga lo stesso ragionamento ed accostamento e quindi concordo. Grazie per i sempre amichevoli chiarimenti sul tuo pensiero.
    Max

  2. Max scrive:

    Salute Anarchico, innanzitutto grazie per il tuo lavoro e per il Blog che seguo assiduamente. Rileggevo solo oggi per bene l’articolo “Rivoluzione oggi o anche no” linkato nel tuo ultimo intervento di ‘Bilancio sul primo anno di attività’.

    Sia pur condividendone i contenuti in linea generale sono dubbioso sulla definizione di ‘gradualismo anarchico’ in quanto tale; sono cioè preoccupato che la definizione stessa di “gradualismo anarchico” infici, in qualche modo il concetto stesso di ‘rivoluzionario’ diventando una vera e propria ‘dottrina politica dell’attesa’ anche se, come dici e in parte concordo, sia utile concentrarsi sul diffondere idee e pratiche di libertà nella nostra società o proporre, in pratica, giorno dopo giorno, lotte per conquistarla e manifestarla.

    Tuttavia rimango dubbioso sulla proposta di associarsi con chiunque condivida obiettivi e metodi libertari, perché, a mio parere, molto semplicemente, chi condivide obiettivi e metodi libertari, non è altro che il libertario, quindi non di associazione si parla ma di fusione con noi stessi! Inoltre è un’affermazione che implica una “chiara” definizione di cosa voglia dire associarsi e necessita sapere quali sono gli scopi delle persone o gruppi o movimenti a cui associarsi. Volta per volta. L’associazionismo generico non può essere intesa come una metodologia, una prassi, uno strumento a sé. Chiaramente non credo che ti riferissi a questo, voglio solo proporre un paio di ragionamenti personali.

    Ritengo poi, rispettosamente ed amichevolmente, che anche il ‘gradualismo anarchico’, inteso come asserzione metodologica sia sinceramente un concetto troppo vago. Io credo che l’idea di gradualismo anarchico sia una verità, un concetto che NON possa essere preso a se stante, come una teoria ‘autoportante’.

    E’ solo un mero fattore su cui ragionare, un aspetto del nostro ragionamento, sull’anarchia, sulla “rivoluzione ultima”.

    Sospetto che il concetto di gradualismo anarchico, impugnato come assioma, possa, in un certo modo, persino manifestarsi come negazione di un fattore spesso essenziale di molti anarchici e libertari rivoluzionari, cioè il “desiderio impellente di anarchia nel quotidiano”, un’aspirazione che, inevitabilmente, alla sua nascita, si scontra, immediatamente, violentemente, con la società odierna nel suo complesso.

    Tale aspirazione rivoluzionaria individuale, se sincera, totale e coinvolgente, per me genera difficilmente la “paziente facoltà” di ricercare, di indagare e trovare, nascoste sotto le pietre della contemporanea dittatura mercantile, spazi di dialogo, correzioni di mira, condivisione di obiettivi o dialoghi con chi “rivoluzionario” non è. L’attitudine rivoluzionaria individuale, invece, può portare, da subito, all’agire individuale per la propria libertà o all’associarsi con altri per la rivolta o atti di rivolta, anche simbolici e meramente emblematici, ma che ristabiliscano con urgenza anche solo il concetto della propria libertà personale.

    La forte attitudine al “mero” e circoscritto gradualismo è possibile in individui per natura pacifici, mansueti, proni a compromessi o semplicemente iper razionali, maturi, anziani , stanchi o semplicemente molto ‘sociali’, compassionevoli o peggio timorosi. Dall’altro lato abbiamo la scarsità di veri e propri rivoluzionari anarchici dovuta a vari fattori, prima di tutti la violentissima repressione, l’educazione oppressiva ed onnipresente nella nostra dittatura mercantile, che instilla ovunque terrore e convenzionalità consumistica, svuota le persone delle proprie facoltà, comprese il coraggio alla rivolta, appunto, “personale” sostituendolo con un erroneo e stereotipico concetto di sacrificio per la società. Io credo che il rivoluzionario in lotta non lo faccia spinto da un sacrificio per la società ma anche e proprio per se stesso, per rivendicare, nella contingenza, la propria libertà, conscio altresì che in questo modo aiuterà anche altri.

    Io non credo che Malatesta intendesse sviluppare il concetto del gradualismo anarchico come la “pratica” sul campo o una prassi fondamentale, ma che semplicemente constatasse ed avvertisse i libertari che la rivoluzione anarchica sarà effettiva senza imposizioni dell’uomo sull’uomo, quando gli individui avranno sviluppato, autonomamente, principi libertari. Non credo che intendesse proporre questo mero concetto come strumento per i metodi operativi in relazione all’analisi storica come (almeno apparentemente) viene proposto nell’articolo.

    Credo che il criterio (del tutto spontaneo e naturale) tuttora in atto di convivenza di un GRADUALISMO ANARCHICO “contemporaneamente” ad un concreto RIBELLISMO ANARCHICO sia, appunto, naturalmente e spontaneamente valido perché in relazione alle attitudini individuali e caratteriali dei vari tipi di rivoluzionari anarchici. Sempre che di rivoluzionari si parli. Mi sento quindi di disapprovare chi disprezza o si dissocia sia da un metodo che dall’altro. Non è questione di non essere né carne né pesce, è questione di fare quello che si fa quando se ne ha naturalmente voglia e, nel corso della vita e nei nostri pensieri le cose cambiano. La supposta “contingenza storica” presa in esame nel proporre il gradualismo non è altro che un aspetto del nostro pensiero, un’analisi, non una realtà incontestabile.

    Spero di essermi spiegato e che il mio semplice commento sia adeguato anche se magari era un’analisi scontata e già sottintesa nell’articolo o nelle idee dell’anarchico. Ho la volontà di capire le riflessioni di altri compagni e ringrazio per questo, per me utile, spazio.

    Max

    • lanarchico scrive:

      @Max: Ti ringrazio per il contributo ove non vedo nulla di controverso dal mio punto di vista. Nell’articolo, infatti, scrivo: “al mutare delle precondizioni oggettive della società contemporanea dei paesi occidentali e al venir meno del fermento rivoluzionario delle masse, gli anarchici dovrebbero ritornare al Malatesta citato precedentemente e, quindi, alla strategia del gradualismo anarchico. Questo non significa che gli anarchici debbano rinunciare alla rivolta individuale o collettiva come strumento per combattere l’ingiustizia e avvicinarsi all’anarchia. Al contrario, ritengo che la rivolta costituisca una delle armi più efficaci nella lotta umana per conquistare la libertà e che sia perfettamente in linea con la visione anarchica non soltanto malatestiana”. Per quanto riguarda, invece, la definizione di libertario ed anarchico: nella pratica non vedo un’identità ma soltanto un’affinità che potrebbe essere meglio sviluppata.

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