Che la sensibilità libertaria e lo spirito anarchicheggiante siano abbastanza diffusi nella società odierna, anche tra personaggi noti, è un dato già trattato negli articoli precedenti. E’ altrettanto innegabile che il senso autentico dell’anarchia sia per molte persone abbastanza oscuro e una migliore conoscenza dell’ideologia anarchica non sia agevolata dall’atteggiamento ostile dimostrato dai mezzi d’informazione di massa. Giornali, televisioni, radio e simili sono proprietà dei potenti che l’anarchismo vorrebbe eliminare quindi che loro ci combattano con qualsiasi mezzo sembra piuttosto normale. E’ meno normale ed accettabile che le loro posizioni vengano spacciate per verità oggettive e che le loro illazioni siano considerate prove inoppugnabili. Questo spazio nasce proprio per proporre una possibile chiave di lettura anarchica al fine di interpretare i fenomeni della nostra società e, possibilmente, promuovere un cambiamento.
Ritengo che il primario problema della nostra società risieda nel sistema economico e che il capitalismo origini una serie infinita di conseguenze indesiderabili nella società umana del terzo millennio. Intendo quindi partire con alcune considerazioni sull’economia anche per fornire alcuni spunti di riflessione e di sfida al pensiero oggi dominante. Perché l’anarchismo, così come lo concepisce la vasta maggioranza del movimento organizzato, non è una sensibilità libertaria generica di tipo individuale (quello che Murray Bookchin definì lifestyle anarchism) ma, al contrario, un anarchismo sociale che punta ad un cambiamento radicale dell’esistente attraverso la costruzione di una prospettiva nuova per il futuro.
Trovo davvero strano che, ai giorni nostri, il capitalismo sia accettato come inevitabile dalla vasta maggioranza della popolazione, nonostante siano proprio gli strati sociali inferiori ma maggioritari a subirne i guasti peggiori, in termini di peggioramento delle condizioni di lavoro, disoccupazione, inquinamento, sprechi, etc. Anche dopo la crisi economica internazionale, l’opposizione al capitalismo e al mercato come forma di organizzare l’attività produttiva e di consumo pare confinata a piccole minoranze di operai sui tetti che, peraltro, spesso si limitano a chiedere di poter essere impiegati da un nuovo padrone, magari anche a condizioni peggiori, pur di mantenere il posto.
Non c’è dubbio che uno degli effetti più devastanti del capitalismo sulla società sia l’ineguaglianza che dovrebbe risultare intollerabile a tutti quelli che la subiscono, ovvero alla quasi totalità della popolazione. Recentemente, sono ritornati agli onori delle cronache gli stipendi dei superdirigenti di aziende pubbliche e private. Suona strano e moralmente inaccettabile, anche a molti strenui difensori del mercato, che, nel dopoguerra, l’Amministratore Delegato della FIAT, Vittorio Valletta, guadagnasse circa 30 volte il salario di un operaio mentre l’attuale AD Sergio Marchionne porti a casa 170 volte più di un lavoratore FIAT (a salario pieno). L’esempio si ripropone in tutte le aziende a livello globale, tuttavia, non esiste alcun forte movimento d’opinione popolare che lotti seriamente contro questa bestialità. Se poi consideriamo come molta manodopera migrante in Italia sia obbligata a lavorare in nero a 20 euro al giorno (quando riesce ad essere pagata), allora l’ineguaglianza diventa ancora più intollerabile e, al tempo stesso, dimenticata[1].
La giustificazione principale di questo stato di cose, nel quale le risorse vengono progressivamente concentrate in un’esigua minoranza di persone a scapito di tutte le altre che invece sono costrette a peggiorare la propria vita, sembra essere la cosiddetta meritocrazia. La meritocrazia presuppone che le posizioni di comando a tutti i livelli vengano ricoperte secondo criteri di merito e non di appartenenza lobbistica, familiare (nepotismo e in senso allargato clientelismo) o di casta economica (oligarchia). Il metodo di valutazione e, quindi, anche la remunerazione degli individui si dovrebbe basare, quindi, esclusivamente sul riconoscimento dei meriti da loro acquisiti. Da questa definizione si capisce il motivo per cui tanti supposti progressisti auspichino l’instaurazione definitiva della meritocrazia.
Andrebbe sempre ricordato che il concetto di meritocrazia era stato introdotto dal sociologo del Partito Laburista inglese Michael Young negli anni ’50, per stigmatizzare il pericolo che una nuova élite di privilegiati potesse emergere dai sistemi educativi dell’epoca, basati su test di valutazione standardizzati[2]. Il termine, coniato dal suo ideatore con connotazioni negative[3], è stato invece inculcato nelle menti delle persone con un’enfasi totalmente positiva, come fosse un dogma insindacabile per costruire una nuova etica.
Quindi, la meritocrazia è una distopia divenuta utopia e, come tale, mi sembra opportuno abbozzare un’analisi sull’argomento proprio perché il concetto trova pochi oppositori (a parole) ed affascina molte persone che non apprezzano lo stato di cose attuale e vorrebbero un cambiamento.
Il principio di base della mia analisi è che il “merito” non è un valore oggettivo e misurabile ma, anzi, dipende dal sistema di valori dominanti in una certa società e, quindi, le valutazioni dipendono dalle condizioni nelle quali sono effettuate e da chi è incaricato di effettuarle. Conseguentemente, è legittimo aspettarsi che il sistema meritocratico selezionerà le persone sulla base dei “valori” della classe dirigente chiamata a prendere le decisioni e che alle persone che non corrispondano agli interessi e alle preferenze soggettive dei dirigenti stessi difficilmente sarà riconosciuto alcun “merito”.
Sembra abbastanza agevole dimostrare che qualsiasi élite tenda a perpetuare sé stessa ma a chi dubitasse della partigianeria dei dirigenti nel valutare il merito, farei notare che anche se esistesse un sistema assolutamente imparziale i “meriti” non potrebbero essere distribuiti equamente nella nostra società giacché l’accesso ai fornitori di questi “meriti” (genitori con un educazione superiore, asili e scuole efficienti, università, lavori qualificanti, accesso alle persone che contano, etc) non è e non può in alcun modo essere equamente distribuito nella società. In effetti, sono portato a dare ragione all’ideatore della meritocrazia quando afferma che questo sistema è stato ampiamente realizzato, portando vantaggi alle medesime classi già privilegiate.
In conclusione, alla luce del breve approfondimento siamo ritornati al punto di partenza: non mi sembra accettabile giustificare ampie differenze retributive sulla base del merito. E anche se ammettessimo che sia possibile selezionare le persone sulla base del merito e che, quindi, la classe dirigente si identifichi con i “migliori” che avrebbero nelle mani tutte le leve del potere continuerei a considerare inaccettabile che il potere e le risorse siano concentrate in una classe di individui dotati di capacità supposte superiori. Mi ricorderebbe troppo la situazione attuale.
Questo è quello che non mi piace. Riguardo alle proposte costruttive ho bisogno di un po’ di spazio e di tempo per cui vi do appuntamento alla prossima puntata.
[1] Uno di quelli che non dimenticano è Marco Rovelli che, in anni recenti, ha scritto diversi libri sulla situazione del lavoro e dei migranti in Italia, che consiglio assolutamente di leggere. Su: http://www.marcorovelli.it/ i riferimenti.
[2] Michael Dunlop Young, “L’avvento della meritocrazia : 1870-2033” Milano : Edizioni di Comunità , 1962.
[3] Una delle ultime interviste di Michael Young nel 2001 al quotidiano progressista inglese The Guardian nella quale spiega come il pericolo costituito dalla meritocrazia si sia in parte effettivamente realizzato nella società attuale.