Uno degli scopi di questo articolo è quello di consigliare la lettura del bel libro di Vincenzo Mantovani, storico di formazione ma convertitosi alla letteratura e al giornalismo e, oggi, apprezzato romanziere e traduttore di letteratura anglosassone. Il voluminoso tomo (edito da Il Saggiatore-Net) che da il titolo a questo articolo ha un prezzo accessibile (14,50 Euro) e narra dell’attentato effettuato da un piccolo gruppo di simpatizzanti anarchici al Teatro Diana di Milano (1921). Il lavoro è basato sulla scrupolosa ricostruzione degli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale, attraverso fonti storiche e giornalistiche riportate con acume e sensibilità politica e letteraria e rappresenta la riedizione di un lavoro effettuato negli anni ’70 (“Mazurka Blu”), sull’onda dello sdegno seguito al tentativo di addossare agli anarchici la responsabilità della strage di Piazza Fontana.
Mantovani riesce a costruire un affresco dell’antagonismo sociale, non soltanto milanese, che precedette l’avvento del fascismo e delle ragioni che lo spinsero alla sconfitta, approfondendo in particolare il ruolo degli anarchici in quel contesto di forte conflittualità. Dal mio punto di vista, la descrizione puntuale e documentata dell’attività delle compagne e dei compagni anarchici in quegli anni è stata estremamente utile anche per riportare gli avvenimenti storici ai nostri giorni, uscendo dal mito del passato che, in alcuni casi, costituisce un comodo alibi per rimpiangere gli anni d’oro senza rimettersi in discussione in un’ottica di attualità e prospettiva.
Un primo punto di riflessione riguarda la consistenza numerica degli anarchici in quegli anni ruggenti: allora come ora il movimento anarchico organizzato era numericamente limitato. A titolo di esempio, la riunione costitutiva dell’Unione Anarchica Milanese avvenne il 9 agosto 1919 con la partecipazione di “una quindicina di anarchici” . La redazione milanese del quotidiano Umanità Nova che uscì per la prima volta il 27 febbraio 1920 era costituita di un pugno di persone e un paio di amministratori.
Nonostante il limite oggettivo di essere pochi, gli anarchici dell’epoca dimostrano però un’ottima capacità di comunicare con le masse. Infatti, nelle occasioni di ritrovo, nelle riunioni alla Camera del lavoro e nelle manifestazioni, gli anarchici sono supportati da centinaia e, in molti casi, migliaia di simpatizzanti, anche appartenenti ad aree diverse da quella libertaria. Il movimento anarchico, in quegli anni, propone contenuti e scelte politiche che corrispondono al desiderio rivoluzionario delle masse, scavalcando il Partito Socialista. Questo gioca quasi costantemente il ruolo del pompiere degli entusiasmi popolari e scontenta così molti dei suoi stessi iscritti, che sentono gli anarchici più vicini alle proprie aspirazioni.
Fatto estremamente importante, a mio avviso, è che gli anarchici dimostrarono una capacità importante di raccolta fondi (vedi le imponenti raccolte a favore del quotidiano, che veniva letto ben oltre il movimento specifico) che consentì loro di dotarsi di strumenti di propaganda adeguati al loro tempo. Chiaramente, la prevalenza di un sentimento rivoluzionario nelle masse agevolava notevolmente la possibilità per i rivoluzionari per eccellenza, quali certamente erano gli anarchici, di far passare messaggi attraverso la stampa di movimento (allora come ora assolutamente variegata e capillare ma con un quotidiano a diffusione nazionale a supporto) e altre occasioni di lotta.
Quello che mi preme sottolineare è come i compagni di allora ricercassero con tutte le loro forze il confronto (e, a volte, anche lo scontro) con le altre componenti popolari, in primo luogo coi socialisti. Per esempio, era prassi corrente che, a ogni comizio indetto dal Partito Socialista, un oratore delegato dagli anarchici chiedesse e prendesse la parola per esprimere la posizione libertaria. L’intervento degli anarchici era diventato, quindi, l’incubo dei dirigenti socialisti perché spesso questi comizi ottenevano l’approvazione di molti partecipanti socialisti originando discussioni, polemiche e, in qualche caso, anche disordini di piazza. Ad un certo punto, i dirigenti socialisti tentarono di impedire questi interventi anarchici ma i compagni non si rassegnarono a questa censura e lottarono sempre perché il loro diritto di parlare ai comizi altrui fosse rispettato.
Un altro elemento di riflessione mi porta al fulcro del libro di Mantovani: ovvero all’episodio della bomba al Teatro Diana che provocò 21 morti innocenti e più di 50 feriti la sera del 23 marzo 1921. L’episodio fu preceduto da altri attentati dinamitardi diretti ad obiettivi specifici e con la preoccupazione di non provocare vittime innocenti (per esempio, si veda l’attentato al ristorante Biffi nel quale trovò la morte Bruno Filippi).
Nel libro vengono analizzate tutte le cause politiche e sociali dell’atto e si intravede la motivazione che ha spinto un pugno di individui legati all’ideale anarchico (con la mai chiarita possibilità di un’ispirazione poliziesca) a effettuare uno dei peggiori attentati terroristici (ovvero che colpisce nel mucchio per generare terrore indiscriminato) della storia italiana.
In estrema sintesi, le condizioni di vita miserevoli del popolo, la repressione feroce delle autorità e dei fascisti nei confronti delle lotte popolari che provocarono morti e feriti, la carcerazione ingiustificata per diversi mesi di Malatesta e altri compagni (che iniziarono un durissimo sciopero della fame), l’apatia delle masse popolari guidate da partiti impauriti dall’emergente fascismo furono tutti elementi che, insieme ad altri, spinsero alcuni compagni ad una reazione impulsiva e violenta.
Occorre constatare la conseguenza oggettiva della strage del Diana: l’unanime condanna popolare di questo atto di violenza cieca ed indiscriminata fece buon gioco alla strategia d’isolamento degli anarchici perseguita dal governo e dai mezzi d’informazione borghesi e provocò l’ulteriore aggravamento del difficile rapporto politico coi socialisti. Inoltre, fu data l’occasione ai peggiori nemici del popolo e degli anarchici, ovvero i fascisti, di strumentalizzare l’episodio giocando un ruolo da protagonisti assoluti nelle manifestazioni di cordoglio e di portare la borghesia e il suo strumento, ovvero lo Stato, ad accentuare la repressione sui movimenti popolari che furono rapidamente annichiliti non soltanto a Milano (dove peraltro i socialisti governavano). Da allora, i fascisti capirono che le bombe e il terrorismo potevano costituire un ottimo strumento per realizzare i loro fini e la storia italiana successiva prova senza dubbio che cercarono di utilizzare ancora questo strumento. Ma anche gli anarchici impararono la lezione e, da allora, si tennero lontani da tentazioni dinamitarde.
Marco Gastoni articolo uscito su Umanità Nova n.29